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Cassa integrazione e assegno ordinario: proroghe nel decreto Fiscale, tra novità e conferme

  • Immagine del redattore: Cristina Bonesi
    Cristina Bonesi
  • 28 ott 2021
  • Tempo di lettura: 10 min

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Eufranio Massi – Rif. Ipsoa Lavoro


Il decreto Fiscale prolunga di altre 13 settimane, collocate nel periodo compreso tra il 1° ottobre ed il 31 dicembre 2021, la possibilità per le aziende in crisi per il COVID-19 di chiedere l’assegno ordinario del FIS o la cassa integrazione in deroga. Alle imprese appartenenti ai settori delle industrie tessili, delle confezioni di articoli di abbigliamento e di articoli in pelle e pelliccia e della fabbricazione di articoli in pelle inoltre potranno essere riconosciute ulteriori 9 settimane in presenza di sospensioni o riduzioni di attività riconducibili alla pandemia. Viene rispristinato poi il divieto di licenziamento per tutta la durata della fruizione dell’ammortizzatore sociale, con quali limiti?

Con il D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, comunemente chiamato decreto Fiscale in quanto, buona parte delle disposizioni ivi contenute sono di natura finanziaria, il Governo è intervenuto su una serie di materie che riguardano il mondo del lavoro. In particolare, il decreto contiene specifiche norme che riguardano proroghe di integrazione salariale finalizzate ad attutire gli effetti della fine del blocco dei licenziamenti in alcuni ambiti produttivi e commerciali, prevista con il prossimo 31 ottobre ed alla CIGS per i lavoratori di Alitalia in amministrazione straordinaria.

E’ su questi ultimi argomenti concernenti il sostegno del reddito che intendo, oggi, focalizzare la mia attenzione, contenuti nell’art. 11 (Assegno ordinario, cassa in deroga e CIGO per il settore tessile) e nell’art. 10 per i dipendenti della ex compagnia di bandiera del decreto Fiscale.

Assegno ordinario e cassa in deroga

L’esame inizia dall’art. 11 che ipotizza una serie di proroghe.

Per esse, l’Esecutivo ha scelto, tra le strade possibili, quella più agile, atteso che si è fatto riferimento alla normativa integrativa varata sulla spinta dell’emergenza pandemica, cosa che consente di “by-passare”, gran parte della procedura prevista dal D.L.vo n. 148/2015, riferita sia alla fase di informazione e consultazione che, soprattutto, a quella di approvazione.

Con l’art. 8, comma 2, del decreto Sostegni (D.L. n. 41/2021) erano state riconosciute 28 settimane da fruire fino alla fine del 2021 in favore delle aziende in crisi per le conseguenze della COVID-19 e che, pertanto, erano state costrette a ridurre o sospendere l’attività: ora, quei datori di lavoro, a cui non si applica la normativa sulle integrazioni salariali che fanno riferimento alla CIGO, potranno richiedere ulteriori 13 settimane di assegno ordinario (quindi, FIS) o di cassa in deroga, nel periodo compreso tra il 1° ottobre ed il 31 dicembre. L’intervento potrà essere richiesto per tutti i lavoratori in forza alla data del 22 ottobre 2021, giorno di entrata in vigore del decreto (non c’è, quindi, alcun riferimento all’anzianità aziendale di almeno 90 giorni nell’unità produttiva come avviene per le integrazioni salariali gestite attraverso il D.L. n. 148/2015).


Per tali trattamenti non sarà dovuto alcun contributo addizionale (e qui, la norma, si pone sullo stesso piano degli interventi già approvati con il D.L. n. 73).

Si tratta di interventi integrativi che, in ogni caso, non rientrano nel computo del quinquennio mobile.


Da come è scritto il testo, si arguisce che le imprese dovranno far riferimento all’emergenza COVID-19 essendo stati, esplicitamente, richiamati gli articoli 19, 21, 22 e 22-quater del D.L. n. 18/2020 convertito, con modificazioni nella legge n. 27, pur se, al momento, più che di COVID-19 si può parlare di effetti conseguenti o correlati alla pandemia.

Il richiamo agli articoli da 19 a 22 fa sì che possa trovare applicazione anche la norma di interpretazione autentica relativa al rinnovo o alla proroga dei contratti a termine ed in somministrazione in scadenza durante il periodo integrativo, prevista dall’art. 19-bis che cita, espressamente, le altre norme appena citate: sul punto, comunque, sarebbe opportuno un chiarimento da parte dell’INPS o del Ministero del Lavoro.

Il comma 3, con riguardo specifico alle aziende che possono fruire della cassa in deroga o dell’assegno ordinario, pone una condizione importante: le 13 settimane potranno essere richieste soltanto se le precedenti 28 (iniziate con la settimana del 1° aprile che, per effetto dei chiarimenti INPS, era cominciata il 29 marzo) sono state autorizzate e, soprattutto, decorso il periodo autorizzato.


La disposizione presenta una copertura pari a 657,9 milioni di euro per l’anno in corso, ripartiti in 304,3 milioni per i trattamenti di assegno ordinario e di 353,6 milioni per la cassa in deroga. All’INPS, come al solito, verrà affidato un compito di monitoraggio che sarà finalizzato a verificare se il tetto massimo, anche in via prospettica, dovesse venir superato: in tal caso l’Istituto sarà tenuto a bloccare l’afflusso delle istanze.

CIGO per il settore tessile

Con il comma successivo l’Esecutivo pensa, invece, alle imprese del settore tessile identificate con i codici Ateco 13, 14 e 15, già oggetto di attenzione del decreto Sostegni bis (D.L. n. 73/2021, art. 50-bis, comma 2): esse appartengono ai settori delle industrie tessili, delle confezioni di articoli di abbigliamento e di articoli in pelle e pelliccia e della fabbricazione di articoli in pelle ed hanno una copertura di CIGO fino al 31 ottobre. Ad esse potranno essere riconosciute ulteriori 9 settimane da fruire tra il 1° ottobre ed il 31 dicembre (senza il pagamento di alcun contributo addizionale) in presenza di sospensioni o riduzioni di attività riconducibili alla pandemia che, secondo i principi generali in uso durante la crisi epidemiologica, non entrano nel computo del quinquennio mobile.

Il comma 3 dell’art. 11 si occupa anche del momento in cui le settimane integrative potranno essere richieste e lo fa, risolvendo una criticità che si era appalesata nella bozza circolata sui media, dopo l’approvazione del Decreto Legge in Consiglio dei Ministri: le istanze potranno essere richieste, “decorso il periodo autorizzato” e non “se le tredici settimane, da utilizzare entro ottobre, siano state tutte consumate”, cosa che avrebbe impedito l’accesso alla CIGO a quelle aziende che di quel pacchetto, avessero consumato soltanto una parte. Per il resto credo che, allorquando l’INPS emanerà la circolare applicativa, non potrà discostarsi da quanto affermato nella circolare n. 125 del 9 agosto 2021, emanata sulla scorta di quanto affermato dall’art. 50-bis del D.L. n. 73 per ciò che concerne:

· Il conguaglio delle integrazioni corrisposte direttamente ai lavoratori che deve essere effettuato, a pena di decadenza, come stabilisce l’art. 7 del D.L.vo n. 148/2015, entro 6 mesi dalla fine del periodo di paga in corso alla scadenza del termine di durata della concessione o dalla data del provvedimento autorizzatorio, se successivo;

· Le quote di TFR maturate durante il periodo di integrazione salariale restano a carico dell’azienda;

· Le imprese soggette al Fondo di Tesoreria sono tenute a versare le quote maturate dai dipendenti durante il periodo in cui gli stessi hanno fruito del trattamento integrativo.

Le misure integrative sono finanziate per l’anno in corso con 140, 5 milioni di euro che restano sotto “l’occhio di controllo” dell’INPS che, in caso di superamento della somma, anche in via prospettica, dovrà bloccare l’accettazione e la conseguente istruttoria delle successive istanze.

Presentazione delle domande

Per la presentazione delle domande all’Istituto relative a tutte le casistiche integrative previste dal D.L. n. 146, varranno, sempre, le stesse regole: a pena di decadenza, esse dovranno essere inviate, telematicamente, entro la fine del mese successivo a quello nel quale ha avuto inizio la sospensione o la riduzione di orario. La norma nulla dice riguardo alla fase di informazione e di consultazione sindacale che resta del tutto uguale a quella dei precedenti provvedimenti.

Il comma 5 si occupa del pagamento diretto da parte dell’INPS che è alternativo rispetto all’anticipazione da parte del datore di lavoro. Quest’ultimo che è, presumibilmente, in difficoltà economica, dovrà comunicare all’Istituto tutti i dati dei lavoratori necessari per il pagamento o il saldo entro la fine del mese successivo a quello al quale si riferisce il periodo integrativo, o, in alternativa, entro 30 giorni dalla adozione del provvedimento concessorio, se successivo.

N.B. I termini sono di natura perentoria: se non verranno rispettati, l’INPS non pagherà e tutti gli oneri ricadranno sul datore.

Assegno ordinario dei Fondi bilaterali

Le medesime regole si applicheranno ai Fondi bilaterali previsti dall’art. 27 del D.L.vo n. 148/2015 (tra il quali spicca, per importanza in questo specifico momento, quello del settore artigiano), i quali saranno tenuti a garantire l’assegno ordinario con le medesime modalità. I Fondi, ai quali viene, complessivamente riconosciuto un “plafond” di 700 milioni di euro (ci saranno i Decreti Ministeriali a suddividerne gli importi), erogheranno gli importi nei limiti delle risorse assegnate.


Divieto di licenziamento…

Il comma 7 rappresenta uno dei punti focali della nuova disposizione che, stando al dettato letterale, non si riferisce a tutti i potenziali fruitori dei provvedimenti ma, soltanto, a quelli che presenteranno istanza per la fruizione dell’assegno ordinario (FIS e Fondi bilaterali) o della cassa in deroga o della CIGO del settore tessile allargato (commi 1, 2 e 6). Essi, non potranno, per tutta la durata della fruizione dell’ammortizzatore:

· Avviare procedure collettive di riduzione di personale ai sensi degli articoli 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991. Tale disposizione, indirettamente, vale anche, come richiamo, agli organi amministrativi eventualmente destinatari delle note di comunicazione ex art. 4 (Ispettorati territoriali del Lavoro, organismi competenti designati dalle Regioni, Direzione Generale delle Relazioni Industriali e dei Rapporti di Lavoro del Ministero del Lavoro);

· Procedere, a prescindere dal numero dei dipendenti in forza (cosa che riguarda, quindi, anche i piccolissimi datori di lavoro), a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge n. 604/1966, durante tutto il periodo di “godimento” dell’integrazione salariale: tutto questo comporta anche la sospensione dell’iter ex art. 7 della legge n. 604/1966 in corso, eventualmente iniziato. Ricordo che quest’ultimo si riferisce alla intenzione dei datori di lavoro dimensionati oltre le 15 unità (più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo), di avviare la risoluzione del rapporto di lavoro per motivi economici di dipendenti a tempo indeterminato, assunti prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del D.L.vo n. 23/2015. La sospensione della procedura richiama anche l’attenzione dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, presso la cui sede è istituita la commissione provinciale di conciliazione avanti alla quale si svolge il tentativo obbligatorio.

A completamento delle analisi relative al comma 7, occorre ricordare, per completezza di informazione, che l’art. 43 del D.L. n. 73/2021, tuttora in vigore, blocca i licenziamenti per motivi economici fino al 31 dicembre 2021 ai datori di lavoro dei settori del turismo, degli stabilimenti termali, del commercio, del creativo, del culturale e dello spettacolo che abbiano richiesto e beneficiato dell’esonero dei contributi previdenziali a loro carico, pari al doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei mesi di gennaio, febbraio e marzo 2021, con esclusione dei premi INAIL.

… e deroghe

Tutto ciò, come già previsto in altri provvedimenti di urgenza emanati nel corso degli anni 2020 e 2021, non trova applicazione in alcune ipotesi ben consolidate, sulle quali si sofferma il comma 8:

· Licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’impresa, conseguenti anche alla messa in liquidazione definitiva della società, senza alcuna prosecuzione, neanche parziale, della stessa. Quanto appena detto non vale se nel corso della liquidazione si configuri una cessione totale o parziale di beni aziendali tali da rappresentare un trasferimento di azienda o di un ramo di essa: in questo caso, scatta la tutela dell’art. 2112 c.c. per ogni lavoratore interessato, con la conseguente illegittimità degli eventuali recessi intimati;

· Accordo collettivo aziendale stipulato con le organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale (in sostanza, con le organizzazioni territoriali di categoria, ma non con le RSA o le RSU che, tuttavia, possono, a mio avviso, aggiungere la propria firma “ad abundantiam”), limitatamente ai lavoratori che aderiscono ad una ipotesi di risoluzione consensuale. Questi ultimi hanno diritto alla NASpI, in presenza dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti dal D.L.vo n. 22/2015, secondo le indicazioni fornite dall’INPS con la circolare n. 111/2020 (richiesta del trattamento di disoccupazione con accordo allegato e dichiarazione di adesione) e con alcuni messaggi successivi. Il datore di lavoro è tenuto al pagamento contributo di ingresso alla NASpI nella misura ordinaria. Nell’accordo collettivo (per l’INPS è sufficiente anche una sola sigla tra quelle “comparativamente più rappresentative”) che va siglato entro il giorno di scadenza del “blocco dei licenziamenti” a seguito di fruizione della integrazione salariale (ma anche le risoluzioni, secondo l’Istituto, debbono avvenire entro la medesima data), le parti individuano i profili eccedentari e possono (non è un obbligo) identificare il “quantum” a titolo di incentivo all’esodo che può essere diversificato in ragione del profilo professionale, dell’anzianità e delle singole situazioni, non dimenticando anche ipotesi di pensionamento anticipato. Nell’accordo, le parti possono anche convenire che i singoli accordi di risoluzione siano sottoscritti “in sede protetta” ex art. 410 o 411 cpc, cosa che evita al lavoratore la procedura telematica di conferma della risoluzione consensuale o delle dimissioni attraverso la procedura telematica individuata dall’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015 e dal conseguente D.M. applicativo. L’accordo collettivo può avvenire anche a seguito di procedura collettiva di personale (criterio delle risoluzioni consensuali ex art. 5 della legge n. 223/1991) che, è possibile in quanto prevista come eccezione alla regola generale: in tale quadro, sempre come eccezione, possono essere riprese anche le procedure individuali ex art. 7 della legge n. 604/1966 ma anche quelle, non obbligatorie, da svolgere innanzi alla commissione provinciale di conciliazione;

· Fallimento, con licenziamento di tutto il personale, nell’ipotesi in cui non sia previsto l’esercizio provvisorio o sia disposta la cessazione dell’attività. Nel caso in cui l’esercizio provvisorio, disposto dall’autorità giudiziaria, riguardi uno specifico ramo d’azienda, sono esclusi dal divieto, i licenziamenti che riguardano i settori e le unità produttive non compresi nello stesso. Una breve notazione si rende, a mio avviso, necessaria: a differenza di quanto previsto in precedenti provvedimenti, il comma 8 non cita i cambi di appalto ove si riconoscono come legittimi i licenziamenti adottati laddove una norma di legge (ad esempio, l’art. 50 del c.d. codice dei “contratti pubblici”), di contratto collettivo (ad esempio, l’art. 4 del CCNL multiservizi) o di clausola del bando di gara o del regolamento (ad esempio, un “codicillo” che richiami l’invarianza occupazionale) imponga il mantenimento degli organici in capo al datore di lavoro subentrante. Sarà una dimenticanza?

Da ultimo due cose che scaturiscono dai commi 9 e 10.

Con il primo il limite di spesa dell’art. 50-bis del D.L. n. 73 (c.d. settore tessile allargato) viene incrementato di 80 milioni di euro, con il secondo quello dell’art. 40-bis, comma 1 del D.L. n. 73, viene rideterminato in 106 milioni di euro. L’art. 40-bis, comma 1, fa riferimento a quelle imprese che presentano particolari difficoltà ben conosciute dal Ministero dello Sviluppo Economico e che non possono ricorrere ai trattamenti di integrazione salariale ex D.L.vo n. 148/2015.

CIGS per i dipendenti della ex Alitalia

L’art. 10 del D.L. n. 146, con l’obiettivo di garantire la continuità del sostegno del reddito in favore dei lavoratori di Alitalia Sai e Alitalia Cityliner, convolti nel programma di amministrazione straordinaria già previsto dall’art. 79, comma 4-bis, del D.L. n. 18/2020 convertito, con modificazioni, nella legge n. 27, prevede la possibilità di una concessione del trattamento integrativo straordinario per un massimo di 12 mesi, ma non oltre il 31 dicembre 2022. La Cassa può proseguire anche in un periodo successivo al termine dell’attività del commissario, fermo restando il limite massimo sopra indicato.


Il finanziamento delle integrazioni salariali è pari a 63,5 milioni di euro e, al contempo, viene incrementato, per il prossimo anno, il Fondo di solidarietà per il settore del trasporto aereo e del sistema aeroportuale di 212,2 milioni di euro: esso è finalizzato alla integrazione del trattamento di CIGS.


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