Contratti di lavoro a termine: causali anche per i rinnovi dei rapporti di breve durata
- Rif. Ipsoa
- 26 lug 2018
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Rif. Eufranio Massi – Ipsoa Lavoro
n caso di rinnovo del contratto a termine, l’atto scritto deve contenere la specificazione di una delle causali previste dal decreto Dignità. Qualora, invece, ci si trovi di fronte ad una proroga, l’individuazione della condizione alla base del contratto è necessaria soltanto se il termine complessivo supera i 12 mesi. Per i rapporti di breve durata non superiori a 12 giorni non è, invece, necessaria la forma scritta. I datori di lavoro possono usufruire più volte di tale tipologia contrattuale a condizione che non si superi il termine massimo dei 12 giorni. In tal caso, trattandosi di rinnovo, il rapporto deve essere supportato da una causale.
La profonda revisione dei contratti a termine, contenuta nel decreto Dignità (D.L. n. 87/2018), si concretizza sotto diversi parametri:
- diminuzione della durata massima complessiva riferita ai rapporti a termine, intesi anche in sommatoria, ivi compresa la somministrazione a tempo determinato;
- introduzione delle causali, a partire dal tredicesimo mese di utilizzazione del lavoratore, sia che si superi la soglia dell’anno in virtù di un contratto iniziale, di una proroga o di un rinnovo;
- aumento dell’aliquota contributiva in caso di rinnovo;
- ampliamento dei termini per la proposizione del ricorso giudiziario.
Premettendo che il decreto legge ha avviato l’iter parlamentare di conversione in legge, vediamo, quindi, come il Governo è intervenuto sottolineando le criticità ed i possibili miglioramenti da introdurre in sede di conversione.
Causali e limite massimo di durata
Afferma il nuovo art. 19, comma 1, che l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato è consentita per un periodo di durata non superiore a 12 mesi, senza l’obbligo della introduzione di alcuna causale.
Al contratto a tempo determinato può essere apposto un termine maggiore che, tuttavia non potrà superare la soglia dei 24 mesi e che, comunque, dovrà essere legittimata da una delle seguenti causali:
- esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’attività, ovvero per esigenze sostitutive di altri lavoratori;
- esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria.
Cosa cambia: Contratto a tempo determinato
Quanto appena detto merita alcune riflessioni.
Riflessione 1. La durata
La prima riguarda la durata: il contratto a termine, fatte salve le diverse determinazioni della contrattazione collettiva (il comma 2, su questo punto, non è stato toccato come non è stata toccata la possibilità di stipulare alla scadenza del termine massimo un ulteriore contratto presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro), può durare fino a 24 mesi ma l’assenza della causale riguarda, unicamente, il primo contratto a tempo determinato (fino a 12 mesi, magari raggiungibili con una proroga): una durata maggiore necessita di causali, come necessita di causale il rinnovo di un contratto a termine stipulato nell’arco temporale dei dodici mesi. L’introduzione delle condizioni non si riverbera sui contratti stagionali che possono essere rinnovati o prorogati senza l’apposizione di alcuna condizione.
Riflessione 2. Le causali
La seconda riguarda le causali.
L’introduzione delle ragioni giustificatrici riappare nel nostro ordinamento dopo che il D.L. n. 34/2014 aveva cancellato quelle tecniche, produttive, organizzative e sostitutive previste dal D.L. vo n. 368/2001. Il D.L. n. 87/2018, le “rimette in campo” con una dizione che sembra riprendere interpretazioni giurisprudenziali emanate sotto la vigenza della legge n. 230/1962.
La prima causale fa riferimento a situazioni temporanee ed oggettive la cui natura deve essere estranea all’attività produttiva e per esigenze sostitutive di altri lavoratori come nel caso delle sostituzioni per maternità, malattia, infortunio o ferie. Esse, non consentono di oltrepassare la soglia dei 24 mesi, pena la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto: ciò può avvenire anche in sommatoria con precedenti contratti riferibili a mansioni espletate nel livello della stessa categoria legale di inquadramento. E qui, ad avviso di chi scrive, resta sempre valido l’accorgimento di inserire nel contratto a termine, oltre alla specifica causale, anche il riferimento al fatto che il rapporto cessa al raggiungimento dei 24 mesi raggiungibili, si ripete, anche in sommatoria.
Sempre restando all’interno della prima causale il D.L. n. 87/2018 parla di esigenze temporanee estranee all’attività ordinaria dell’impresa: da ciò sembrerebbe dedursi che, superando la soglia dei 12 mesi, il contratto possa, legittimamente, essere stipulato per pochi casi, come ad esempio, la gestione di un progetto finalizzato o lo sviluppo di una nuova linea produttiva.
L’altra causale fa riferimento a “esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria”. I tre requisiti sembrano dover sussistere congiuntamente.
Tale dizione potrebbe essere foriera di contenziosi che attengono non soltanto alla temporaneità del contratto ma al fatto che l’incremento dell’attività deve essere “significativo”: ovviamente, in caso di lite, il parametro del giudice potrebbe essere diverso da quello dell’imprenditore (il quale, fino a prova contraria, organizza il lavoro all’interno della propria struttura): quale è la percentuale della significatività? E, poi, come andrà valutato il riferimento agli “incrementi temporanei dell’attività ordinaria non programmabili”? Come verrà valutata, ad esempio, l’acquisizione di una commessa per la quale si è trattato per lungo tempo o come verrà valutato l’incremento, sempre, di una commessa ove, in corso d’opera, il cliente chieda un maggior ordinativo, magari non particolarmente significativo, in termini generali, secondo il lavoratore che ha proceduto all’impugnativa? O come sarà valutata nel settore commerciale l’assunzione di un’addetta alle vendite che ha già alle spalle, più di dodici mesi di rapporti a termine con lo stesso datore, per far fronte alle maggiori vendite dei “saldi” (il periodo rientra nella ordinaria attività d’impresa in quanto le date si sanno dall’inizio dell’anno)?
Ciò che fa pensare è la possibilità che in via giudiziaria, soprattutto a livello di primo grado, si concretizzino orientamenti difformi con la conseguenza, venendo meno la causale, della trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato che rappresenta, non dimentichiamolo, la forma comune del contratto di lavoro subordinato.
Tutto questo nel breve-lungo periodo potrebbe, non tanto favorire l’occupazione a tempo indeterminato, ma l’esternalizzazione attraverso appalti, anche ai limiti della legalità, il ricorso ad improbabili forme di collaborazione, peraltro sanzionate, in caso di controllo, dall’art. 2 del D.L.vo n. 81/2015 (ma qui saranno gli ispettori del lavoro che dovranno cercare di limitare e controllare il fenomeno). Al contempo, potrebbe essere accentuato il ricorso a terzisti ubicati all’estero la cui proprietà non è dell’impresa che importa in Italia e, che, quindi, non ha delocalizzato e che, di conseguenza, non ricadono nelle misure di recupero previste dall’art. 5 del D.L. n. 87/2018.
Per completezza di informazione si ricorda che in materia di contratti a termine continua a sussistere la sanzione amministrativa (del tutto particolare per come fu pensata) prevista dall’art. 23, comma 4, applicata dagli ispettori del lavoro in caso di superamento della percentuale legale o contrattuale, secondo le modalità declinate dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 18 del 30 luglio 2014.
Il limite massimo dei ventiquattro mesi non riguarda i contratti di lavoro stagionali per i quali è restata invariata (comma 2 dell’art. 21) la previsione contenuta già, a suo tempo, nell’art. 5, comma 4 –ter del D.L.vo n. 368/2001: essi percorrono una strada parallela, destinata a non incontrarsi mai con quella degli altri contratti a termine.
Durata e sommatoria dei periodi
Ma, detto questo, torniamo ad esaminare l’art. 19 ed esattamente il comma 2, ove l’unica novità introdotta riguarda la sostituzione della parola “trentasei” con “ventiquattro”.
La disposizione, dopo aver fatto salve le eventuali disposizioni diverse previste dalla pattuizione collettiva, anche aziendale, sottoscritta dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, afferma che la durata massima dei contratti conclusi dal datore di lavoro e dal lavoratore, per effetto di una successione tra gli stessi ed indipendentemente dai periodi di interruzione tra l’uno e l’altro, non può superare il limite dei 24 mesi, per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale di inquadramento. Nel computo di tale periodo, ai fini della sommatoria, rientrano anche i contratti di somministrazione svolti tra il lavoratore e l’utilizzatore (il riferimento è, sempre, al “pari livello e categoria legale”). Se il limite massimo viene superato, sia in presenza di un unico contratto che per successione di più contratti, il rapporto si considera a tempo indeterminato a partire dal superamento della soglia temporale.
Cosa significa tutto questo?
La contrattazione collettiva, anche aziendale, può, legittimamente, oltrepassare la soglia massima, con la conseguenza che i ventiquattro mesi sono derogabili, ovviamente nel rispetto delle causali. Piuttosto, si pone, giuridicamente, la questione della validità degli accordi che, in passato, hanno derogato al limite massimo legale: ad avviso di chi scrive, gli stessi conservano la propria validità in quanto si basano su una disposizione che non è stata in alcun modo riformata.
La disposizione parla di limite di ventiquattro mesi raggiungibili in sommatoria con i contratti di somministrazione. Da che data questi ultimi vanno computati?
La circolare del Ministero del Lavoro n. 18/2012, prendendo lo spunto dal fatto che l’obbligo fu introdotto con la legge n. 92/2012, chiarì che i rapporti di somministrazione dovessero essere calcolati a partire dal 18 luglio del 2012, data di entrata in vigore della norma: si ritiene che tale indirizzo possa essere confermato.
Non si ritiene, invece, che siano sommabili tra di loro periodi con contratti a termine lavorati alle dipendenze di imprese diverse, pur facenti parte dello stesso gruppo. Il discorso può presentarsi alquanto complesso e delicato in quanto in alcune ipotesi la pluralità di aziende collegate (con un unico centro organizzativo e direzionale) non coincide con la nozione giuridica di “gruppo di imprese”, come dimostrato (sia pure ai fini dell’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970) dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 14553 del 17 agosto 2012.
Ovviamente, si può porre il problema di un’impresa che, per effetto di fusioni ed incorporazioni abbia, giuridicamente, ereditato tutte le posizioni di aziende prima “viventi”: non è possibile trovare una risposta di carattere generale, dovendosi, di volta in volta, valutare i casi concreti: tuttavia, si ha motivo di ritenere che, in quest’ultimo caso, possa operare la sommatoria dei contratti, cosa che, sicuramente si verifica laddove interviene l’art. 2112 c.c. con la cessione di azienda o ramo di essa.
Il limite massimo dei 24 mesi può essere superato anche con il contratto stipulato innanzi all’Ispettorato territoriale del Lavoro. Quell’ulteriore contratto, definito “in deroga assistita” e già presente all’interno del D.L.vo n. 368/2001, è stato rivisto all’interno del D.L.vo n. 81/2015 e non è stato interessato dalle modifiche introdotte dal D.L. n. 87/2018.
L’attuale previsione fa salva l’eventuale diversa determinazione delle parti sociali, anche a livello aziendale, e stabilisce che l’ulteriore contratto (art. 19, comma 3), con causale, stipulato alla scadenza dei 24 mesi avanti all’Ispettorato territoriale del Lavoro, abbia una durata massima di 12 mesi e che il mancato rispetto della procedura, nonché il superamento del termine stabilito nel contratto, comportano la qualificazione dello stesso come rapporto a tempo indeterminato a partire dalla data della stipula.
Passiamo, ora, ad esaminare altre novità introdotte.
Atto scritto
Il comma 4 dell’art. 19 è stato riscritto con alcuni “cambiamenti ad hoc”.
Il contratto, con la sola eccezione dei rapporti di lavoro di durata non superiore a 12 giorni, deve risultare da atto scritto: in caso contrario, l’apposizione del termine non ha effetto. Rispetto al testo precedente, è stata espunta la possibilità di prova del termine da qualunque altro riferimento diretto od indiretto. Ad avviso di chi scrive, poco cambia rispetto al passato nel senso che, senza il termine, il contratto viene inficiato alla radice, ed il rapporto si considera a tempo indeterminato fin dall’inizio.
La forma scritta del contratto riguarda anche i contratti legati alle attività stagionali, stipulabili senza condizioni.
L’art. 19 comma 4, nel testo rinnovato dal D.L. n. 87/2018 ribadisce l’obbligo in carico al datore di lavoro di consegnare al dipendente copia dell’atto scritto entro i cinque giorni lavorativi, successivi all’assunzione. La mancata consegna, di per se stessa, non appare gravata di sanzione ma, ad avviso di chi scrive, può rientrare negli obblighi previsti dall’art. 4-bis, primo periodo, comma 2, del D.L.vo n. 181/2000, ove si afferma che all’atto della instaurazione del rapporto, prima dell’inizio dell’attività, i datori di lavoro privati sono tenuti a consegnare ai lavoratori copia della comunicazione di instaurazione del rapporto. Tale obbligo si ritiene assolto se il datore consegna, prima dell’inizio dell’attività lavorativa, copia del contratto individuale che contenga tutte le informazioni richieste dal D. Lgs. n. 152/1997: la violazione viene punita con una sanzione amministrativa compresa tra 250 e 1.500 euro. L’onere citato nel D.L. n. 87/2018 appare, nella sostanza, una duplicazione burocratica che, forse, si poteva evitare.
Il nuovo comma 4 prosegue ricordando che in caso di rinnovo (quindi di un nuovo contratto a tempo determinato) l’atto scritto deve contenere la specificazione di una delle causali previste al comma 1: qualora, invece, ci si trovi di fronte ad una proroga (come vedremo, nei ventiquattro mesi possono essere soltanto quattro e non cinque) l’individuazione della condizione alla base del contratto è necessaria soltanto se il termine complessivo supera i 12 mesi. Da quanto appena detto si evince, chiaramente, che un primo contratto a termine di 6 mesi, può essere restare senza causale se, con la proroga, non supera la soglia sopra indicata, mentre se il primo cessa e, poi, se ne stipula un altro, è necessaria la causale pur se si dovesse restare, in sommatoria con il precedente contratto, entro il tetto dei dodici mesi.
Rapporti di breve durata
Sempre il comma 4 dell’art. 19 riconferma che per i rapporti di breve durata non superiori a dodici giorni non è necessaria la forma scritta. La prova di queste situazioni, infatti, non è soggetta a prescrizioni formali e, in caso di giudizio, può essere fornita dal datore di lavoro secondo i principi generali sulla ripartizione dell’onere probatorio (Cass. 8 luglio 1995, n. 7507).
Il periodo va inteso, ad avviso di chi scrive, come 12 giorni lavorativi, in quanto appare plausibile che il parametro di riferimento sia rappresentato dalle “due settimane”, comprensive dei due giorni di riposo ex art. 9 del D.Lgs. n. 66/2003.
Alcune considerazioni si possono trarre dal disposto normativo:
- La mancanza della forma scritta è un fatto puramente formale, atteso che sul datore di lavoro grava sempre l’obbligo della comunicazione di assunzione anticipata telematica al centro per l’impiego
- Il contratto rientra nella percentuale legale del 20% ed in quella prevista dalla contrattazione collettiva (a meno che non vi sia stata una esplicita esclusione)
- Il venir meno della occasionalità, un tempo prevista dal D.L.vo n. 368/2001, consente ai datori di lavoro di usufruire, più volte di tale tipologia contrattuale a condizione che non si superi il termine massimo dei dodici giorni, ma, il nuovo dettato normativo (trattandosi di rinnovo pur se la “forma” resta orale) chiede che il rapporto sia supportato da una causale (almeno questa appare la lettura coordinata con le nuove disposizioni)
- Non è consentita l’utilizzazione di istituti che consentano il superamento di tale limite (sforamento del termine, proroga, ecc.).
Contributo addizionale
Sui contratti non a tempo indeterminato (art. 2, commi 28 e 29 della legge n. 92/2012), compresi quelli stipulati dalle “start-up innovative” e quelli “orali” fino a dodici giorni, si applica un contributo addizionale, a carico dei datori di lavoro, pari all’1,40% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, il cui scopo principale è, oggi, quello di contribuire al finanziamento della NASpI. Ora, con la previsione contenuta nel comma 2 dell’art. 3 del D.L. n. 87/2018 il contributo dell’1,40% viene aumentato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato: tale regola vale anche per la somministrazione.
Il contributo addizionale non si applica:
- Ai lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti
- Ai lavoratori assunti a tempo determinato per lo svolgimento di attività stagionali
- Agli apprendisti che, però, stipulano, sin dall’inizio, un contratto a tempo indeterminato, fatta eccezione per quelli stagionali disciplinati contrattualmente, al momento, nel solo settore del turismo
- Ai lavoratori dipendenti dalle Pubbliche Amministrazioni nella maggior parte dei casi, individuate ex art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001.
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