Contratto di appalto e outsourcing tra vantaggi e sanzioni per le aziende
- Rif. Ipsoa
- 7 giu 2018
- Tempo di lettura: 4 min

Rif. Ipsoa – Lavoro e previdenza
Tra le aziende è frequente il ricorso al contratto d’appalto, uno strumento che consente di coniugare flessibilità produttiva e riduzione dei costi fissi aziendali. L’esternalizzazione dell’attività produttiva secondo il modello organizzativo dell’appalto è visto con sospetto dal legislatore, soprattutto nelle ipotesi del labour intensive, ossia del contratto d’appalto che implichi un forte impiego di manodopera. Quali sono i criteri da considerare per delimitare correttamente il perimetro di liceità all’interno del quale le imprese possono legittimamente muoversi? Quali sono le sanzioni applicabili in caso di constatate finalità elusive?
E’ risaputo come le aziende ricerchino nella flessibilità produttiva lo strumento per adattare, fra l’altro, la propria struttura alle mutevoli esigenze del mercato ed alle situazioni impreviste. La ricerca di tale flessibilità, in uno col desiderio di ridurre i costi fissi aziendali, spinge gli imprenditori alla ricerca di nuovi modelli di organizzazione del lavoro il cui approdo spesso si materializza nell’esternalizzazione di fette più o meno cospicue del ciclo produttivo (outsourcing).
Nell’ambito del nostro ordinamento giuridico l’esternalizzazione dell’attività è regolamentata secondo diversi modelli contrattuali (fra i quali, ad esempio, la somministrazione di lavoro, il distacco di manodopera, la subfornitura, il contratto d’opera, ecc.) ma, fra tutti, l’istituto che probabilmente è utilizzato con maggior frequenza è rappresentato dal contratto d’appalto.
Va tuttavia rilevato come il Legislatore domestico abbia sempre considerato con sospetto in particolare quel contratto d’appalto che implichi un forte impiego di manodopera (labour intensive). Ciò deriva essenzialmente dal fatto che tale istituto, per effetto dell’apprestamento del tipico meccanismo interpositorio, ben si presta ad essere utilizzato con finalità elusive della disciplina legislativa e contrattuale vigente (con la conseguente dispersione delle responsabilità e la potenziale disparità di trattamento tra i dipendenti del committente e dell’appaltatore), con la conseguenza di rendere spesso difficoltosa la corretta imputazione del rapporto di lavoro e dei conseguenti obblighi.
Appalto genuino
Il punto di partenza della disamina non può che essere la definizione - sulla base della vigente disciplina normativa nonché dei consolidati orientamenti giurisprudenziali - del perimetro di liceità all’interno del quale è consentito agli operatori economici di muoversi, vale a dire la definizione del cosiddetto appalto genuino.
Per fare ciò occorre necessariamente prendere le mosse dalla definizione contenuta nell’art. 1655 del codice civile secondo cui “l’appalto è il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro”.
Per distinguere l’appalto lecito da quello illecito questa definizione dell’istituto va, tuttavia, attualizzata in base alla successiva disciplina contenuta nell’art. 29, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003 in virtù della quale “il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell'articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d'impresa.”
Dal raffronto delle due norme è possibile individuare i criteri che contraddistinguono e legittimano l’appalto genuino; si tratta de:
1) L’organizzazione di mezzi, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto;
2) L’esercizio, da parte dell’appaltatore, del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto;
3) L’assunzione, da parte dell’appaltatore, del rischio d’impresa.
Nel puntualizzare, difatti, la distinzione tra i due fenomeni interpositori la Circolare del Ministero del lavoro n. 5/2011 ha affermato che:
• L’appalto ha per oggetto un «fare», giacché l’appaltatore fornisce al committente un’opera o un servizio, da realizzare tramite la propria organizzazione di uomini e mezzi, assumendosi il rischio d’impresa;
• La somministrazione di lavoro ha invece per oggetto un «dare», in quanto il somministratore si limita a fornire a un terzo forza-lavoro da lui assunta, affinché questi ne utilizzi la prestazione secondo le proprie necessità, adattandole al proprio sistema organizzativo.
In definitiva un appalto può essere definito “genuino” quando l’appaltatore non risulti essere un intermediario, ma un vero e proprio imprenditore che, come tale, impieghi una propria organizzazione produttiva ed assuma i rischi della realizzazione dell’opera, o del servizio pattuito. L’appalto, invece, maschera una interposizione illecita di manodopera, quando il pseudo-appaltatore si limita a mettere a disposizione del pseudo-committente le mere prestazioni lavorative dei propri dipendenti.
Conseguenze previste in caso di appalto illecito
In assenza degli elementi sostanziali e formali dell’appalto, si configura un’ipotesi di somministrazione abusiva a carico dello pseudo-appaltatore ed una conseguente utilizzazione illecita a carico del pseudo-committente.
Sotto il profilo civilistico il lavoratore interessato, può richiedere, mediante ricorso giudiziale ex art. 414 c.p.c., la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del pseudo committente.
Per l’appalto privo dei requisiti è prevista, inoltre a carico tanto del pseudo-committente quanto del pseudo-appaltatore, la sanzione amministrativa di 50 euro per ogni lavoratore occupato e per ciascuna giornata di irregolare occupazione (la violazione non è diffidabile ex art. 13, D.Lgs. 124/2004 e, nell’importo complessivo, non può essere inferiore a 5.000 euro, né superiore a 50.000 euro).
Qualora venga accertato lo sfruttamento di minori nell’ambito dell’appalto illecito, il Legislatore ha previsto un aggravamento delle conseguenze sanzionatorie contemplando, a carico dei contravventori, la pena dell'arresto fino a diciotto mesi e l'ammenda fino a 300 euro per ogni giorno e per ciascun lavoratore minore illecitamente impiegato. In tal caso non è ovviamente prevista la procedura premiale della prescrizione obbligatoria
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