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Il datore di lavoro non sempre è responsabile dell’infortunio del dipendente incauto

  • Rif. Avv. Luigi De Valeri
  • 5 apr 2016
  • Tempo di lettura: 9 min

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Di recente è stata pubblicata un interessante decisione della IV sezione penale della Cassazione che rappresenta per certi versi una nuova tendenza giurisprudenziale in tema di infortuni sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro e del RSPP, tematica di evidente interesse per gli imprenditori e per i professionisti responsabili di questo servizio che trova puntuale disciplina nel D.Lgs. 81/08.

Nel caso in questione che sottopongo all’attenzione degli imprenditori e dei professionisti RSPP e comunque dei lettori del blog, deciso con la sentenza n. 8883 del 3 marzo 2016, un lavoratore particolarmente esperto di sicurezza sul lavoro essendo stato egli stesso nominato responsabile della sicurezza dei lavoratori della sua azienda, decideva incautamente, di salire sul tetto dell’edificio aziendale per meglio posizionare dei fili e nel percorrere un tratto ricoperto da sottili lastre di eternit a seguito del cedimento precipitava al suolo. Ci si chiede se e quale rimprovero può rivolgersi ad un datore di lavoro o a un responsabile aziendale per la sicurezza che ha dotato il dipendente, esperto e formato in materia di sicurezza del lavoro, di tutti i presidi antinfortunistici e della strumentazione necessaria per effettuare il lavoro in sicurezza, analogo a quello che egli era chiamato a compiere da cinque anni, a fronte di tale modus agendi ad dir poco incauto.

Chi ha seguito come vi scrive la tendenza dei giudici di legittimità negli ultimi anni ha rilevato un punto fermo per cui non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre comunque all’insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente. Ma, rilevava il collegio, il caso in questione evidenzia che tutte le cautele possibili da assumersi ex ante erano state assunte dal datore di lavoro.

Il Tribunale di Rieti aveva assolto il datore e il RSPP perché il fatto non sussiste, dai seguenti reati: a) del reato di cui agli artt. 113 e 590 commi 1 e 3 c.p., poiché, in cooperazione colposa tra loro, l’amministratore unico della ditta e il responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei lavoratori per colpe consistita in imprudenza e violazione, della normativa sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, ed in particolare nell’avere, nelle rispettive qualità sopra indicate, omesso di predisporre i necessari apprestamenti di sicurezza prima di procedere all’utilizzo del piano di copertura come piano di lavoro per l’esecuzione dei lavori di realizzazione di linee elettriche di alimentazione per la successiva posa in opera di fari all’Interno dei locali della ditta ” provocando al dipendente della ditta lesioni personali. Quest’ultimo con la qualifica di elettricista manutentore, nell’effettuare i lavori sopra descritti, procedeva al pedinamento dell’estradosso di lastre in fibrocemento, poste a copertura di un edificio industriale e a causa del cedimento di un elemento precipitava al suolo da un’altezza di circa 6 mt. riportando trauma cranico, toracico e degli arti, dalle quali derivava una malattia della durata superiore a giorni quaranta. Gli imputati in cooperazione colposa tra loro omettevano di predisporre i necessari apprestamenti di sicurezza prima di procedere all’utilizzo del piano di copertura come piano di lavoro per l’esecuzione di attività finalizzata alla realizzazione di linee elettriche di alimentazione per la successiva posa di fari.

A seguito del ricorso degli imputati la vicenda approdava in Cassazione alla quarta sezione penale.

Affermava la difesa che le risultanze istruttorie avevano fatto emergere l’assoluta correttezza del comportamento degli imputati e la condotta imprudente del dipendente. Ovvero gli imputati avevano scelto di far eseguire il lavoro a bordo dell’elevatore, mettendo a disposizione tutte le necessarie attrezzature ed impartendo le direttive organizzative e le precise modalità con cui svolgere il lavoro. L’unica causa dell’incidente era il comportamento tenuto dal lavoratore del tutto imprevedibile e non ipotizzabile con la circostanza decisiva che costui aveva violato gli obblighi impostigli, tenendo una condotta abnorme che avrebbe costituito una causa sopravvenute da sola sufficiente a determinare l’evento.

Il ricorso è stato accolto. La Corte ha richiamato il principio per cui la sentenza di condanna deve essere pronunciata soltanto “se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, ex art. 533 c.p.p. comma 1 e questo “presuppone comunque che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, sia sorretta da argomenti dirimenti tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza” (Cass. sez. 6, n. 40159 del 3.11.2011).

Non era condivisibile il giudizio per cui, dato per pacifico da entrambi i giudici di merito, che il posizionamento dei faretti potesse essere operato utilizzando l’elevatore che il datore di lavoro dell’operaio gli aveva messo a disposizione, la Corte territoriale fosse giunta alla diversa conclusione per il corretto posizionamento dei relativi cavi, rifacendosi alle risultanze della testimonianza di un soggetto altamente qualificato in materia e senz’altro terzo rispetto ai fatti, qual è il tecnico del Dipartimento di Prevenzione e del Servizio di Protezione e Sicurezza degli Ambienti del Lavoro della ASL “un’opinione che appare contrastata, oltre che dallo stato del luoghi evidenziato dalle fotografie allegate agli atti, anche dalla deposizione di un altro teste. La dinamica dell’incidente era incontestata. Il dipendente della ditta, assunto da 5 anni con la qualifica di elettricista manutentore, si era recato su incarico della propria azienda presso un capannone per montare dei faretti. Il lavoratore era salito, a mezzo di un elevatore oleodinamico messogli a disposizione dal datore sopra il tetto; una volta sul tetto camminava sopra delle lastre di fibrocemento che cedendo ne provocavano la caduta. Dalle dichiarazioni rese dall’amministratore unico e dal responsabile per la sicurezza era emerso che questi si era recato sul posto per incarico del suo datore di lavoro per un sopralluogo in relazione a dei lavori di manutenzione ed installazioni di fari sul capannone.

Il giudice di primo grado aveva individuato come punto centrale del thema decidendi capire la necessità o meno per il dipendente di salire su quel tetto. E di comprendere se avesse detto il vero l’elettricista, che poi era caduto sfondando il tetto, quando aveva riferito che nel sopralluogo del giorno prima fatto con il datore di lavoro si era capito che era necessario fare i lavori salendo sul tetto e che di questa esigenza ne aveva parlato con il responsabile del servizio prevenzione e protezione dei lavoratori della stessa azienda. Tale ricostruzione dei fatti non risultava dalle sole dichiarazioni della parte lesa, mentre ad una soluzione diversa portavano le altre testimonianze e la logica dei luoghi. Era assolutamente verosimile che tutto il lavoro potesse e dovesse essere effettuato mediante l’elevatore messo a disposizione, a mezzo anche di un operatore, dalla azienda.

In ordine alla possibilità che i fili potessero essere collocati dall’elevatore e senza salire sul tetto – ricordava ancora il giudice di primo grado – si era espresso anche l’ispettore della ASL intervenuto sul posto nella immediatezza dei fatti, che aveva indicato come l’impianto interessasse la parte perimetrica del capannone e come, per la sua posa in opera, fosse necessario iniziare dalla parte bassa dell’edificio, per poi salire in quota ed anche per questi era necessario e sufficiente usare l’elevatore oleodinamico con piattaforma che, in effetti, era presente sul posto.

Il giudice di primo grado aveva anche ricordato come l’ispettore della ASL avesse precisato specificamente che anche la canalizzazione dei fili poteva avvenire dall’elevatore senza necessità di salire sul tetto. Inoltre, la corrente doveva essere presa da una parte esterna del fabbricato, sempre accessibile a mezzo dell’elevatore messo a disposizione dalla omissis che rispettava gli standard di sicurezza anche in relazione al lavoro da effettuare. Nella sentenza impugnata era stata travisata la valutazione di una prima prova decisiva: la possibilità che tutte le operazioni fossero svolte dall’elevatore di cui l’operaio era dotato e che tale modalità era quella concordata con omissis.

I giudici di merito rilevavano che la sera il datore dopo avere operato egli stesso il sopralluogo ebbe a parlare al telefono con il lavoratore esponendogli il lavoro da fare e richiedendogli le attrezzature a ciò necessarie. Corretta era la conclusione cui era pervenuto il giudice di prime cure di ritenere come, dal compendio probatorio acquisito, non apparisse possibile sostenere che quei lavori dovevano essere svolti dal tetto e non lo potessero, invece, dall’elevatore. La conclusione era stata che “non fosse possibile rimproverare alcunché ai due odierni imputati avendo gli stessi messo a disposizione di un lavoratore esperto in materia – lavorando da 5 anni in quella azienda e facendo tutti i giorni lavori (in altezza) analoghi – l’attrezzatura (l’elevatore) necessaria a fare il lavoro in sicurezza e facendogli effettuare un preventivo sopralluogo per verificare l’eventuale necessità di ulteriori strumenti. Lavoratore che nulla rappresentava sul punto e che, poi, in modo imprevisto ed imprevedibile, saliva sul tetto e camminava su delle lastre molto sottili che, in modo peraltro inevitabile e certo, cedevano facendolo cadere da un’altezza di circa 6/7 metri.”

Vi era un elettricista esperto cui era stato affidato un lavoro da svolgersi attraverso un elevatore e con una serie di strumenti di protezione di cui era stato dotato. Quel lavoro -secondo quanto ricostruito da un teste esperto e come ha ricordato il responsabile del servizio di prevenzione e protezione della ditta committente- poteva e doveva essere posto in essere in sicurezza dall’elevatore. L’elettricista in questione, che peraltro era un soggetto particolarmente esperto di sicurezza sul lavoro essendo stato egli stesso nominato responsabile della sicurezza dei lavoratori della sua azienda, decide, forse per fare più in fretta, o comunque incautamente, di salire sul tetto per meglio posizionare i fili, percorre il tratto ricoperto da sottili lastre di eternit, che inevitabilmente si sfondano, e precipita al suolo. Che tipo di rimprovero può rivolgersi, si chiede il Collegio giudicante, ad un datore di lavoro o a un responsabile aziendale per la sicurezza che ha dotato il dipendente, esperto e formato in materia di sicurezza del lavoro, di tutti i presidi antinfortunistici e della strumentazione necessaria per effettuare il lavoro in sicurezza, analogo a quello che egli era chiamato a compiere da cinque anni, rispetto a siffatto comportamento?

Nessun rimprovero può muoversi ad entrambi gli odierni ricorrenti in un caso siffatto, in quanto gli stessi si sono legittimamente fidati della professionalità del soggetto cui aveva affidato il lavoro da compiersi.

La Cassazione peraltro come noto ha più volte affermato che non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre comunque all’insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente. Tuttavia, si legge nella sentenza in commento della quarta sezione penale “quello che ci occupa è proprio un caso in cui tutte le cautele possibili da assumersi ex ante erano state assunte.

La Corte di legittimità ha anche ricordato, e questo va sottolineato, come il sistema della normativa antinfortunistica, si sia lentamente trasformato da un modello “iperprotettivo“, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro che, in quanto soggetto garante era investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, anche imponendosi contro la loro volontà), ad un modello “collaborativo” in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori.

Si è dunque affermato il concetto di comportamento “esorbitante”, diverso da quello “abnorme” del lavoratore. Il primo riguarda quelle condotte che fuoriescono dall’ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartiti dal datore di lavoro o di chi ne fa le veci, nell’ambito del contesto lavorativo, il secondo, quello, abnorme, già costantemente delineato dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, si riferisce a quelle condotte poste in essere in maniera imprevedibile dal prestatore di lavoro al di fuori del contesto lavorativo, cioè, che nulla hanno a che vedere con l’attività svolta. Il Testo Unico impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e comunque di agire con diligenza, prudenza e perizia.

Le tendenze giurisprudenziali, rileva la Corte, si indirizzano verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori (c.d. “principio di autoresponsabilità del lavoratore) secondo cui si abbandona il criterio esterno delle mansioni e “si sostituisce con il parametro della prevedibilità intesa come dominabilità umana del fattore causale”. Il datore di lavoro non ha più, dunque, un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore.

Questi principi si attagliano specificamente al caso di specie, essendo rimaste provate non solo la valutazione preventiva del rischio derivante dallo svolgimento in quota dei lavori di sostituzione dei faretti e di posizionamento dei fili, ma anche la concreta dotazione al lavoratore, nel frangente dell’Infortunio, degli strumenti idonei ad effettuare tali tipi di lavoro in sicurezza. Ne deriva l’assenza di violazione della norma cautelare che, idonea forse, come ritenuto dal giudice di primo grado, ad influire sotto il profilo della tipicità oggettiva del reato, lo è certamente sotto il profilo soggettivo dell’assenza di colpa. La sentenza impugnata è stata annullata senza rinvio e gli imputati sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato con la eliminazione delle statuizioni civili del giudice di secondo grado.

Pertanto l’affermazione per cui il datore di lavoro sarebbe sempre responsabile dell’infortunio subito dal lavoratore non può ritenersi corretta.

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