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Dimissioni o licenziamento orale? A chi spetta la prova?

  • Immagine del redattore: Cristina Bonesi
    Cristina Bonesi
  • 11 mag 2015
  • Tempo di lettura: 3 min

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 8927 del 5 maggio 2015, afferma che, nel caso in cui il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio l’inefficacia o l’invalidità del licenziamento, il materiale probatorio deve essere raccolto tenendo conto che la prova gravante sul lavoratore ha ad oggetto la sua estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un’eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade su quest’ultimo.

Nell’ambito della disciplina limitativa dei licenziamenti, fatta eccezione per le residuali ipotesi di recesso ad nutum (lavoratori in prova, lavoratori domestici, lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto e sportivi professionisti), assume particolare rilievo il problema della ripartizione dell’onere probatorio circa la risoluzione del rapporto di lavoro.

Si considera, infatti che, ai sensi dell’art. 2 della Legge n. 604/1966, il requisito formale richiede che il licenziamento abbia la forma scritta; nulla si prescrive per le dimissioni del lavoratore, valide anche se comunicate oralmente.

L’interrogativo che si sono posti gli operatori del diritto deriva dal caso in cui il lavoratore, in giudizio, sostenga l’illegittimità del licenziamento intimatogli oralmente, mentre il datore di lavoro affermi che non vi sia stato alcun licenziamento, ma che la risoluzione del rapporto sia avvenuta per dimissioni oppure consensualmente. In questa ipotesi, come si atteggia l’onere probatorio, in mancanza di un riscontro formale delle dichiarazioni delle parti?

Sul punto i giudicanti si sono pronunciati diverse volte, ma si ravvisano due filoni giurisprudenziali di maggior spessore. Un primo orientamento, più risalente e criticato nei suoi aspetti sostanziali e giuridici, applica fedelmente il primo comma dell’art. 2697 c.c., richiedendo al lavoratore la prova dell’esistenza di un atto estintivo posto in essere dal datore di lavoro, e non la mera circostanza della cessazione di fatto del rapporto (Cass., 22 marzo 1963, n. 701).

Per un’altra impostazione la soluzione del problema interpretativo andrebbe ricercata, nelle “presunzioni giurisprudenziali”, fondate su massime d’esperienza, evitando un’applicazione troppo rigida dell’onere della prova.

In pratica, ove si controverta sull’imputabilità della causa estintiva del rapporto, sarebbe più ragionevole e verosimile che nella realtà sia stato il datore di lavoro a licenziare, piuttosto che il lavoratore a dimettersi; pertanto largo alla presunzione che la cessazione del rapporto di lavoro derivi da un licenziamento, con la conseguenza che sarebbe il datore di lavoro, convenuto, a dover provare una causa estintiva diversa.

E’ sostanzialmente questo il risultato cui è pervenuto l’orientamento giurisprudenziale prevalente, secondo il quale è sufficiente che il lavoratore provi l’interruzione del rapporto, e non anche il licenziamento, ricadendo sul datore di lavoro la prova che il rapporto si sia estinto per dimissioni, mutuo consenso o per recesso intimato in forma scritta.

Rilevo dovrebbe essere, comunque, assegnato al tempo intercorso tra l’episodio e la reazione del lavoratore, in quanto chi, dopo essersene andato, per diversi mesi non si presenta sul luogo di lavoro non può che manifestare la reale volontà di dimettersi.

Nel caso specifico qui in commento, un lavoratore che aveva prestato attività di carpentiere presso un’impresa edile dal febbraio al giugno 2007 vede i primi due gradi di giudizio accogliere la domanda nei confronti del titolare dell’impresa avente ad oggetto le seguenti richieste:

- Riconoscimento della natura subordinata del rapporto - Declaratoria di inefficacia del preteso licenziamento in quanto intimato in forma orale e senza alcuna giustificazione - Pagamento retribuzioni dovute dal recesso alla riassunzione - Pagamento degli importi residui a titolo di retribuzione e TFR

La Corte territoriale riteneva assolto l’onere della prova della subordinazione in capo al lavoratore e quella offerta dal datore insufficiente a confutare la prospettazione dell’intimazione di un licenziamento orale.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione lamentando il percorso valutativo con cui la Corte d’Appello ha ritenuto di natura subordinata il rapporto di lavoro, risolto per recesso del datore di lavoro intimato verbalmente e non per dimissioni volontarie del lavoratore, mediante l’abbandono del posto di lavoro.

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La Cassazione ha respinto il ricorso del datore di lavoro, affermando un principio già presente nella giurisprudenza della Corte e su esposto, ma che, per la sua importanza, dev’essere ribadito.

Gli Ermellini ritengono corretto il percorso valutativo affrontato dal giudice di secondo grado, nel ricondurre al ripetuto ritorno in cantiere del lavoratore, nei giorni seguenti al licenziamento, il valore di una condotta volta alla prosecuzione del rapporto, desumendo che da parte del datore di lavoro nessuna prova era stata offerta, e che potevano trarsi in via presuntiva argomenti di prova in senso contrario dalla prospettazione del lavoratore.

Da qui, dunque, il rigetto del ricorso.

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